Da Pensieri Liberali de IlSole24Ore; Giovanna Guercilena intervista Luigi Zingales
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Professor Zingales, lei è proprio un fan del capitalismo. Cosa le piace tanto?
L’aspetto che io amo del capitalismo è la libertà fornita dalla concorrenza. E’ la concorrenza che dà al consumatore appunto libertà di scelta e che genera la pressione verso efficienza e meritocrazia. E’ l’ingrediente magico che permette al capitalismo di estendere i propri benefici a tutti e non solo a pochi. Quando nel 1984 un giudice americano ruppe il monopolio telefonico di AT&T, un minuto di chiamata da New York a Parigi costava 3,54 dollari, oggi, grazie alla concorrenza, costa solo 9 centesimi. Se oggi le imprese occidentali fanno a gara a investire in India e Cina, così aumentando lo standard di vita di questi paesi, è grazie alla concorrenza, probabilmente lo strumento più efficace di riduzione della povertà nei paesi in via di sviluppo.
Il titolo originale del suo ultimo libro è Capitalism for the people, che forse meglio della traduzione italiana rende il succo delle sue tesi. Ci spiega il senso di quel titolo?
Troppo spesso il capitalismo è visto come un sistema a vantaggio dei soli ricchi, percezione che purtroppo non è infondata, perché quando il capitalismo si fa clientelare e corrotto, diventa un sistema ad uso e consumo di una ristretta élite. Ma a questo capitalismo, io contrappongo l’idea di un capitalismo per la gente, che dia opportunità a tutti, soprattutto a coloro che non hanno la fortuna di nascere ricchi. Un po’ come era in origine il capitalismo americano.
C’è differenza fra il capitalismo americano e quello italiano?
Storicamente quello americano si è avvicinato di più all’ideale di un capitalismo per il popolo. Tanti i motivi, uno per tutti è che in America il capitalismo è nato dopo la democrazia e ad essa si e’ dovuto adattare. In Italia, invece, è successo viceversa: la democrazia si è adattata al sistema capitalista. Ne è nato un capitalismo clientelare e corrotto, che porta al fallimento. Se in Italia molte imprese falliscono non e’ solo per colpa della crisi o dell’elevato costo del lavoro, ma a causa dell’inefficienza creata da questo capitalismo corrotto. Guardiamo al gruppo Fonsai, portato sull’orlo del fallimento dalla gestione della famiglia Ligresti. Il male non è solo Ligresti, ma tutti coloro che in questi anni lo hanno difeso ed aiutato. Ligresti è l’esempio della peggiocrazia italiana.
Uno dei grandi nodi del sistema italiano è proprio l’assenza di meritocrazia, che tra l’altro blocca il cosiddetto ascensore sociale.
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Un altro problema molto italiano è quello dell’illegalità diffusa. Si tratta di un tema solo politico o anche economico?
Entrambe le cose. Se sono un politico e voglio ottenere dei benefici che non mi competono, non nomino un candidato competente, ma uno a me fedele. Se sono un imprenditore e voglio assicurarmi che le mie tangenti, le mie evasioni fiscali, i miei intrecci col potere politico non saranno rivelati, non scelgo il manager migliore, ma quello più fidato. E non c’è persona più fedele del buono a nulla, di chi non ha alternative. Se l’Italia non cresce, se è a rischio di default, è perché è stata fin qui governata dai peggiori. Non i mediocri: i peggiori. Il clientelismo politico e l’economia sommersa hanno trasformato il nostro Paese in una peggiocrazia. Non a caso gli stranieri vogliono investire sempre meno da noi: per loro è troppo rischioso.
La diseguaglianza fuori di qualsiasi ragionevole proporzione fra i redditi dei comuni mortali e quelli di alcuni top manager è un tratto delle nostre società che risulta difficile a digerirsi. C’è una soluzione liberale al riguardo?
Si potrebbe cominciare con un po’ di sana competizione anche al vertice delle imprese. Oggi i top manager americani sono protetti da una regolamentazione che rende molto difficile agli azionisti far valere i propri diritti, tra cui anche limitare i compensi ai manager incapaci. In Italia è ancora peggio perché i vertici delle banche sono influenzati da fondazioni autoreferenziali, i cui dirigenti sono lì da vent’anni. Il solito old boy network che funge da blocco alla mobilità sociale.
Nel Grand Canyon si legge un cartello che in poche righe offre una lezione di economia particolarmente interessante per l’Italia. Ce lo racconta?
Il cartello dice: «Non dare da mangiare agli animali selvatici». Il motivo è che gli animali perderebbero la capacità di andare in cerca del cibo, mettendo così a repentaglio la loro sopravvivenza nell’ambiente naturale. Sono stati gli uomini a piantare il cartello, perché se la questione fosse stata demandata agli animali, questi avrebbero certo preferito non esporlo. Anzi, avrebbero fatto lobby per avere più cibo gratis. Lo stesso vale per le imprese. Individualmente, ogni imprenditore ha vita più facile se foraggiato dal governo: ecco perché si spende così tanto in attività di lobby. Ma nel complesso il sistema di mercato peggiora. Come sarebbe pericoloso lasciare che fossero gli animali a dettare le regole dei parchi nazionali, così è imprudente lasciare agli imprenditori dettare le condizioni del mercato. Questo non significa solo eliminare gli aiuti di stato alle imprese, come Giavazzi ha sempre predicato, ma anche eliminare le barriere all’entrata di nuove imprese e tutta la regolamentazione creata solo per proteggere le imprese esistenti.
Ma le attività di lobby andrebbero vietate?
Il lobbying nasce come una sacrosanta difesa del cittadino contro i soprusi dello stato. Negli Stati Uniti è anche un diritto protetto dalla costituzione. Come tale quindi non può né deve essere abolito. Purtroppo, però, da reattivo, come forma cioè per proteggersi dal governo, il lobbying è diventato proattivo: catturare il legislatore a proprio vantaggio e svantaggio degli altri. Per questo deve essere regolamentato e soprattutto si devono ridurre gli incentivi a fare lobbying del secondo tipo. A questo fine, non c’è modo migliore che ridurre l’influenza dello stato in economia. Più lo stato redistribuisce ricchezza, più risorse verranno impiegate per influenzare questa redistribuzione a proprio vantaggio.
Lei spiega la scelta di lasciare l’Italia dicendo che per una persona con le sue idee non sarebbe stato possibile rimanere, che non ce l’avrebbe fatta nemmeno fisicamente. Cosa vuol dire?
Da ragazzo non ero un contestatore perché ho avuto la fortuna di avere dei genitori che si sono sempre meritati l’autorità che avevano. Purtroppo, però, in un sistema non meritocratico come quello italiano, questa coincidenza tra potere e merito è più l’eccezione che la regola. Per mio carattere, io non riesco a subire l’ingiustizia in silenzio. In Italia mi sarei roso il fegato fino a soffrirne fisicamente. Oggi mi sento un privilegiato, che può dire in Italia quello che pensa e poi tornarsene al suo lavoro negli Stati Uniti. Anche per questo mi sembra giusto provare a dare voce a tutti coloro che in Italia non possono farlo.
Difatti è fortemente impegnato nel progetto politico Fermare il declino. E’ ottimista circa le chance per l’Italia di invertire la rotta?
Per molti anni non ho visto una via di uscita. Oggi, nel profondo della crisi, vedo invece uno spiraglio. La crisi economica spinge al cambiamento e la gente disperata reclama il cambiamento. Nel 1992, però, il passaggio mal gestito portò a un peggioramento, dunque sento un dovere di dare una mano ad evitare che anche questa volta succeda così. Sembra velleitario pensare che un manipolo di intellettuali possa creare un movimento politico senza appoggi finanziari. Eppure in pochi mesi abbiamo superato i trentamila iscritti, riempito i teatri e perfino Piazza San Fedele a Milano. Se non fosse per l’abuso fatto della citazione gramsciana, direi che al pessimismo della ragione anteponiamo l’ottimismo della volontà e della speranza. Questa classe politica ha fatto di peggio che portarci al limite del fallimento, ha tolto a molti italiani perfino la speranza di un miglioramento e Fermare il declino è nato proprio per restituire questa speranza. Anche perché l’alternativa non può limitarsi a Grillo. Per cambiare non basta pensionare i vecchi politici, occorre anche cambiare le regole del gioco, se no i nuovi politici ci metteranno poco a diventare come quelli precedenti, forse peggio.
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