lunedì 31 dicembre 2012

E' l'anno di FARE

Pubblicato: Lun, 31/12/2012 - 12:15  •  da: Oscar Giannino


Carissimi "fattivi", aderenti, simpatizzanti, candidati, e tutti voi che magari solo in questi giorni vi imbattete in qualche nostro gazebo impegnato a raccogliere le firme per le nostre liste,
approfitto dell'ultimo dell'anno per augurarvi un ottimo 2013, come anno del FARE.
I due mesi che abbiamo di fronte sono decisivi.
Il due gennaio, a Roma, presentiamo in una conferenza stampa il nostro simbolo elettorale, i  nostri candidati per le 27 circoscrizioni della Camera e le 20 del Senato, come per le regionali.
Abbiamo già cominciato la raccolta delle firme, da depositare entro il 21 di gennaio, ed è essenziale per  noi tutti che il simbolo sia sulle schede dovunque in Italia.
In coerenza al nostro manifesto, in questi mesi e fino a ieri abbiamo provato in tutti i modi a cercare composizioni con espressioni della società civile che condividessero il nostro chiaro programma in dieci punti. Con alcuni, come Imprese che resistono, la convergenza è stata naturale, nasce dalla piena condivision dell'impegno perché impresa e lavoro cessino di essere colpiti da una politica fiscale tutta tasse, che è stata l'irresponsabile via sin qui seguita dall'Italia. Con altri, il punto di confronto è stato quello della convergenza in uno schieramento più ampio. 
Per questo, sin dalla decisione dell'8 dicembre che mi ha affidato coordinamento e guida del passaggio elettorale, mi sono adoperato.
Con Berlusconi e con il Pd che ha chiuso in faccia la porta a Renzi ogni ipotesi di componibilità era esclusa, siamo nati dicendo no al vecchio.
La nascita pochi giorni fa dell'iniziativa di Monti mi ha obbligato a un ultimo tentativo.Perché fosse evidente a chiunque che non siamo chiusi ad alcuna verifica programmatica, visto che Monti aveva annunciato un'agenda in cantiere. Ho fatto presente che per noi restava irrinunciabile l'abbattimento del debito attraverso dismissioni pubbliche, i 6 punti di Pil di spesa pubblica e i 5 punti di pressione fiscale in meno in 5 anni, come lo scioglimento dei conflitti d'interesse, il riorientamento del welfare per giovani e donne, liberalizzazioni decise, il merito a cominciar dalla PA e una profonda revisione del perimetro pubblico, ancor più essenziale visto che si legge di rinazionalizzazioni come Alitalia, e di nuovi impropri utilizzi di Cassa Depositi e Prestiti come una nuova Iri.    
Ora, il tempo è finito. Nessuna risposta è venuta.
Credo sia giusto così. Evidentemente, il nostro programma è giudicato troppo chiaro e preciso, da parte di chi ha l'abitudine di tenersi le mani libere. Vale anche per Monti.  A dirlo non sono io, è il suo silenzio. Un premier non eletto doveva essere ancor più chiaro di altri.
Provo per questo una grande amarezza, perché resto convinto di un'impostazione elettorale maggioritaria. 
Ma è anche vero che il fallimento di 19 anni di seconda repubblica avevano e hanno bisogno di solidi punti di ripartenza. Come quelli che con tutti i fondatori abbiamo delineato nello scorso agosto: punti di grande chiarezza nella politica economica, nel riequilibrio sociale a vantaggio di milioni di giovani e donne esclusi da reddito e lavoro, e nella discontinuità etica rispetto alla dilapidazione di risorse del contribuente per fini di partito o personali.
Non abbiamo scelto di restare soli. 
La verità è un'altra. Nessun altro se la sente, di indicare agli italiani punti tanto chiari.   
Ora bisogna pensare a una sola cosa. 
Adoperarsi ventre a terra con tutte le nostre forze per raccogliere le firme e per la campagna elettorale.
Moltiplicare le nostre energie per estendere conoscenza e sostegno ai nostri candidati e al nostro programma.
So per primo che l'obbrobrioso Porcellum rende il nostro tentativo molto difficile.
Ma se le difficoltà fossero stata l'unica cosa da prendere in considerazione, non ci sarebbe mai stata nella storia alcuna rivoluzione liberale e civile, i monarchi assoluti sarebbero ancora al loro posto, il fascismo sarebbe durato.
La favola dell api è uno dei miti fondativi di come funzioni una buona società civile e produttiva.
Siamo delle piccole api, non ci montiamo la testa.
Ma in questo 2013 facciamo vedere che sappiamo usare il pungiglione, oltre a produrre molto buon miele
Grazie di quel che farete, e perdonatemi tutti per gli errori che inevitabilmente farò.
E dal 2 gennaio, mi raccomando a tutti, lasciamoli senza parole.

Verso la Prima Repubblica

Pubblicato: Lun, 31/12/2012 - 12:00  •  da: Redazione di Fermare il Declino

Da La Stampa del 31/12/2012 di Luca Ricolfi 
Come sarà il 2013? Ce lo chiediamo in molti, perché un anno come quello che ci lasciamo alle spalle non vorremmo si ripetesse mai più.
Un dato riassume bene quel che è cambiato: le famiglie che non riescono ad arrivare alla fine del mese, e quindi sono costrette a fare debiti o ad attingere ai risparmi, sono raddoppiate. Erano circa 3 milioni e mezzo un anno fa, oggi sono 7 milioni: quasi una famiglia su tre.

In questa situazione, la politica si prepara allegramente al voto del 24 febbraio. E anche noi elettori ci prepariamo perché, comunque la pensiamo, dovremo fare una scelta, foss’anche quella di non andare a votare. Per quanto mi riguarda, il sentimento che meglio descrive il mio stato d’animo è un misto di sconforto e solitudine. Un sentimento che non sento come mio personale, ma come largamente diffuso fra la gente, ovvero in tante delle persone con cui mi capita di parlare.

Lo sconforto è facile da raccontare. Quello cui siamo costretti ad assistere è un film già visto e stravisto. Andremo a votare con il «porcellum», senza poter scegliere i candidati. Eleggeremo un migliaio di parlamentari, come sempre. La sinistra ripropone il governo dell’Unione, già miseramente fallito con Prodi nel 2006-2008. La destra ripropone Berlusconi, il demagogo che ha occupato la scena degli ultimi 20 anni. Il centro, come giustamente paventa Eugenio Scalfari nel suo editoriale di ieri, ripropone una piccola Dc, nobilitata e abbellita dal marchio Monti. Spiace doverlo ammettere (perché anch’io per un attimo mi ero illuso), ma la lista Monti – partita con le più alte intenzioni – questo è diventata alla fine: una formazione che di liberaldemocratico ha quasi nulla e di vecchia politica ha molto, se non quasi tutto. Per me, come per altri, è stato un piccolo shock, una doccia fredda. Nel giro di pochi mesi, e poi sempre più velocemente nelle ultime settimane, negli ultimi giorni, nelle ultime ore, fino alla decisiva «riunione in convento» di venerdì scorso, sono cadute tutte le ipotesi più coraggiose e innovative di cui si è parlato negli ultimi tempi. Ancora due mesi fa, sembrava possibile una lista liberaldemocratica, che saldasse «Italia Futura» e «Fermare il declino», i movimenti di Montezemolo e Giannino. Poi, caduta quell’ipotesi, pareva rimasta in piedi quella di una lista Monti «unica» (senza apparentamenti), molto aperta alle forze esterne, molto selettiva verso la vecchia politica, molto severa con i politici condannati. Era questa la missione affidata al ministro Passera, era questo – credo – ciò che aveva attirato nell’area montiana politici di grande valore come Pietro Ichino. Anche questa ipotesi è caduta: alla Camera chi sceglierà Monti dovrà tenersi Casini e Fini, con tutto il seguito di vecchie glorie della seconda Repubblica. E chi avesse qualche simpatia per «Fermare il declino», il movimento liberaldemocratico di Oscar Giannino, non ne troverebbe traccia nella lista Monti. Strano: Monti ha voluto presentare la sua agenda come aperta, ma non ha ritenuto di rispondere alla lettera aperta che Giannino e i fondatori di «Fermare il declino» gli hanno indirizzato dieci giorni fa. Comportamento legittimo, ma in totale dissonanza con le ripetute dichiarazioni di attenzione alla società civile e ai suoi movimenti.
Piccole cose, piccole beghe, dettagli irrilevanti, diranno i paladini di Monti e della sua agenda. E in effetti la si può pensare così. Se si è preparati ad assistere, 40 anni dopo, all’edizione aggiornata del compromesso storico fra comunisti e democristiani, sognato da Enrico Berlinguer nel 1973, la via è tracciata e ci si può accomodare serenamente in prima fila, in attesa che inizi lo spettacolo. Certo, non sappiamo ancora chi, fra Bersani e Monti, farà il presidente del Consiglio, ma è estremamente probabile che – dopo il 24 febbraio – a governarci sia comunque la santissima trinità Monti-BersaniVendola. Perché, contrariamente a quanto qualcuno vorrebbe farci credere, le distanze fra Bersani e Monti sono minime. Lo dicono innanzi tutto coloro che vedono con simpatia le rispettive agende: «l’agenda Monti ha il merito di mostrare che l’imposizione sui patrimoni non è soltanto una mania delle sinistre», molto lucidamente osservava ieri Stefano Lepri su questo giornale. E ancora più esplicitamente, nel già citato editoriale di ieri, scriveva Eugenio Scalfari: «C’è anche un’agenda Bersani. (…) Tra l’agenda Bersani e quella Monti non vedo grandi differenze, anzi non ne vedo quasi nessuna». Il giudizio mi sembra sostanzialmente corretto, anche se qualche differenza non del tutto marginale io invece la vedrei. Appena concluso il patto con Monti, Casini ha subito enunciato il punto fondamentale del suo programma: il quoziente familiare. Per chi non conoscesse il senso di questa oscura espressione, traduco così: se ci sono risorse per abbassare le tasse, le usiamo per alleggerire la pressione fiscale sulle famiglie in cui la donna non lavora e accudisce i figli. L’esatto contrario di quel che i politici e gli studiosi di matrice liberale raccomandano: aiutare le donne inoccupate a trovare un lavoro, detassando il lavoro femminile. Per non parlare di un’altra differenza, forse ancora più importante: in materia di federalismo, nonostante tutto, il partito di Bersani è più sensibile (meglio: meno insensibile) alle istanze del Nord di quantolo siano i partiti del Terzo polo, profondamente radicati nel Mezzogiorno e perennemente tentati da logiche assistenziali.

Il fatto è che, nell’arcipelago Monti, il peso del mondo laico e liberale è ormai al minimo, mentre quello del moderatismo cattolico è massimo, specie dopo che il ministro Passera è stato costretto al passo indietro, e la rappresentanza della cosiddetta società civile è stata interamente appaltata a Verso la terza Repubblica, il movimento scaturito dalla confluenza fra Italia Futura e innumerevoli sigle dell’associazionismo cattolico. Ecco perché, all’inizio, parlavo di sconforto ma anche di solitudine. Oggi, chi avrebbe voluto cambiare decisamente rotta, lasciandosi alle spalle la vecchia classe politica, imboccando risolutamente la strada delle riforme liberali – meno spesa, meno tasse, meno Stato – è disperatamente solo. E, quel che più dispiace, è solo non perché siamo in pochi, ma perché siamo in tanti ma senza rappresentanza. Nella lista Monti le istanze genuinamente liberali contano poco. I radicali, nonostante gli scioperi della fame (o a causa di essi?), sono quasi scomparsi dalla scena politica. Giannino e il suo movimento sono sostanzialmente ignorati dai media. Renzi è stato sconfitto e i suoi uomini sono tenuti ai margini del Pd. Gli elettori non contano nulla, perché i giochi si faranno dopo, in Parlamento, come ai tempi di Craxi, Forlani e Andreotti. In breve, se non vogliamo né Grillo né il ritorno del grande demagogo, la scelta è fra Pci e Dc. Anzi non c’è vera scelta, perché Bersani e Monti governeranno insieme. Che dire? Buon anno, e ben tornati nella prima Repubblica.

«Il Prof tace, Luca mi snobba Forse perché sono troppo serio»


Pubblicato: Lun, 31/12/2012 - 08:45  •  da: Redazione di Fermare il Declino

Dal Corriere della Sera intervista ad Oscar Giannino di Fabrizio Roncone
«Un'intervista? Devi perdonarmi, ma adesso proprio no: sono in piazza Duomo e... beh, sì, insomma: vorrei evitare di giocarmi definitivamente mia moglie».
( Due ore più tardi, Oscar Giannino è decisamente più rilassato).
«Sai com'è: le avevo promesso che sarei finalmente andato con lei a comprare un po' di regali. Con questa storia della mia candidatura, nelle ultime settimane sono sempre stato in giro per l'Italia a tenere comizi. Però, ormai, ci siamo...».
Quando ufficializzi?
«Il 2 gennaio, a Roma, annunciamo tutto: simbolo e liste. Il movimento "Fermare il Declino", fondato lo scorso agosto, diventa un partito: "Fare"».
Suona bene.
«Sì, suona bene».
Solo che il suono, in politica, non basta.
«Lo so. Infatti, una ventina di giorni fa, spedimmo una lettera aperta a Mario Monti, il cui succo era più o meno questo: sappiamo che la sua "agenda" è un cantiere aperto, noi abbiamo già un programma con dieci punti, forse potremmo pensare di lavorare insieme...».
Risposta?
«Silenzio assoluto. Così, il giorno dopo il suo discorso di Natale, capito che Monti faceva sul serio, decidemmo di muoverci ufficialmente».
Come?
«Telefonando a Palazzo Chigi e chiedendo, formalmente, di essere ricevuti».
Risposta?
«Zero... Come non esistessimo».
Strano.
«Non so che pensare. Forse a Monti secca che nel nostro programma qualche cifra c'è, qualche numeretto l'abbiamo messo: mentre se ti vai a leggere bene la cosidetta "agenda Monti" trovi solo tante belle chiacchiere...».
Dai, non essere severo.
«Non sono severo, sono oggettivo. Anzi, visto che ci siamo, vuoi che ti spieghi in sintesi il nostro programma?».
Certo.
«I punti qualificanti sono tre. Uno: abbattimento del debito con la vendita degli immobili di proprietà dello Stato, perché a noi piace immaginare che sia lo Stato a pagarsi la patrimoniale. Due: tagliare la spesa pubblica, 6 punti di Pil in 5 anni. Tre: tagliare le imposte, 5 punti di Pil in 5 anni. Che te ne pare, eh?».
Programma ottimista e sfacciatamente liberista.
«Liberista fino a un certo punto. Perché noi pensiamo pure che sia necessario ricentrare il Welfare, favorendo le donne e i giovani... che non solo dovrebbero poter essere assunti più facilmente dalle aziende, ma dovrebbero poi poter avere anche qualche moneta da spendere nelle tasche... Comunque se vuoi posso andare avanti per due ore. E sai perché?».
No. 
«Perché in questo nuovo partito c'è tutta gente di sostanza, che ha studiato, che sa, che ha viaggiato, che conosce l'economia del pianeta... per questo siamo riusciti a mettere giù un programma che è una roba serissima. Vedi: è certamente vero che Monti ha ridato credibilità a questo Paese, ma è altrettanto vero che sta ammazzando di tasse gli italiani. Ecco, noi crediamo che ci sia una via d'uscita alternativa e...».
Senti, hai fatto fare dei sondaggi? A quanto state?
«Al 2,5%. Andiamo forte al Nord, così così al Centro, maluccio al Sud. La verità è che, grazie a questo schifo di legge elettorale che ci ritroviamo, o riusciamo a fare un 4% alla Camera o in tre regioni dovremmo essere bravissimi a superare l'8%. In caso contrario, la nostra sarà stata un'operazione di pura testimonianza».
Scusa, ricordo male o eravate partiti insieme a Montezemolo?
«Ricordi bene. Lui e i suoi firmarono il nostro manifesto ad agosto, poi...».
Poi?
«Poi credo che abbiano preferito tenersi le mani libere, senza prendere impegni concreti. Comunque Luca non credo si candiderà, quindi il mio amico Enrico Bondi, che Monti ha incaricato d'essere una sorta di Catone il censore, non avrà problemi con gli eventuali conflitti d'interesse...».
( A fine intervista, Giannino è tornato sulla chiusura de "La versione di Oscar", il programma che conduceva su Radio24. «L'azienda ha posto ragioni di opportunità, poiché ora mi candido. Ma a parte che Berlusconi imperversa ovunque, e nessuno s'indigna... Dico: oh, ragazzi, io campo facendo il giornalista, non potete tagliarmi i viveri... e infatti, sai, mia moglie Margherita è nervosetta anche per questo...» )
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sabato 29 dicembre 2012

2013, l'Europa non riparte



Pubblicato: Sab, 29/12/2012 - 18:00  •  da: Luigi Zingales

Da L' Espresso del 27/12/2012
L'America sembra riprendersi grazie anche al nuovo petrolio. La Cina cresce. Ma le difficoltà dell'euro non si placano. E per l'Italia siamo all'Anno meno uno
"Passeggere . Credete che sarà felice quest'anno nuovo?
Venditore . Oh illustrissimo sì, certo.
Passeggere . Come quest'anno passato?
Venditore . Più più assai.
Passeggere . Come quello di là?
Venditore . Più più, illustrissimo.
Passeggere . Ma come qual altro? Non 
vi piacerebb'egli che l'anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi?

Venditore . Signor no, non mi piacerebbe."
Non occorre condividere il pessimismo leopardiano (nel Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere) per predire che l'anno che sta arrivando non sarà facile, almeno per quanto riguarda l'Italia. C'e' un grande desiderio di vedere la luce alla fine del lungo tunnel della recessione. Non voglio fare l'uccello del malaugurio, ma mi tocca dire che il 2013 non sarà l'anno della ripresa. Nel migliore dei casi sarà l'anno meno uno. Meno uno come il tasso di crescita previsto per il Prodotto Interno Lordo italiano. E meno uno come l'anno prima dell'anno zero del nuovo ciclo. La ripresa arriverà, ma solo nel 2014. 
Il motivo per cui questa crisi, cominciata in America nell'ormai lontano 2007, non accenna a finire è perché non è una crisi semplice, ma l'intersezione di tre crisi diverse: la crisi dei mutui subprime in America, la crisi dell'euro, e la crisi del modello di welfare occidentale. Paradossalmente la prima crisi, quella che ha innescato il cataclisma, si sta risolvendo. Le altre, invece, sono ancora agli inizi. 
La storia è piena di sbornie di euforia, seguite da pesanti crisi finanziarie. La bolla immobiliare americana finanziata dai mutui subprime altro non è che uno di questi episodi. Quando i prezzi delle case in America (ma anche in Spagna) crescevano a due cifre anno dopo anno, era difficile resistere alla tentazione di comprare. Chi è saltato sul treno all'inizio della bolla, indebitandosi fino al collo per comprare una casa più grande o una seconda o terza casa, si è arricchito a dismisura. Gli altri, che hanno cercato di imitare questi fortunati, si sono trovati con il cerino in mano quando i prezzi delle case hanno prima smesso di crescere e poi sono crollati (in media del 30 per cento). 
Il risveglio dopo un periodo di euforia finanziaria è simile a quello dopo una sbornia: cerchio alla testa e depressione. I consumatori, aggravati dal debito contratto durante il boom, sono timorosi. Le banche, piene di crediti inesigibili, non concedono prestiti. E le imprese, senza consumatori e senza credito, faticano ad espandersi. Non a caso, la storia economica ci insegna che dopo ogni crisi finanziaria la ripresa è molto lenta. La crisi attuale non fa eccezione. Invece di recuperare velocemente, gli Stati Uniti ci hanno messo quattro anni per raggiungere il livello di Pil pre crisi. La buona novella è che questo livello è stato raggiunto e sorpassato e gli Stati Uniti stanno consolidando la loro ripresa che sarebbe più robusta se non ci fossero le altre due crisi a complicare la vita. Purtroppo l'Italia, che non è stata investita direttamente dalla crisi del subprime, stenta più degli Stati Uniti. Il Pil è ancora più basso del livello prima della crisi (di ben sette punti percentuali) e il gap non sembra destinato a colmarsi il prossimo anno. Di questo dobbiamo ringraziare le altre due crisi. 
La più acuta delle due è quella dell'euro, che fa tremare non solo gli europei, ma anche gli americani. Se il caso subprime va addebitato al mercato, la crisi dell'euro è interamente colpa dei politici. Non solo non sono riusciti ad evitarla, ma l'hanno espressamente voluta. Quando la moneta comune fu introdotta c'era piena consapevolezza tra i suoi creatori che in questi termini non sarebbe stata sostenibile. La speranza dei padri fondatori era che l'inevitabile crisi avrebbe generato una pressione politica verso una maggiore integrazione europea. Il cuore è stato gettato oltre l'ostacolo nella convinzione che al momento giusto il resto del corpo avrebbe seguito. Purtroppo l'ostacolo sembra più alto del previsto.
Perché una moneta comune funzioni, i paesi che l'adottano devono avere una forte mobilità del lavoro, meccanismi di trasferimento fiscale ed essere soggetti a shock simili. Nessuna di queste tre condizioni vale per l'Europa. Non è così semplice per i tedeschi spostarsi a lavorare in Spagna o per gli spagnoli in Germania. Ai problemi di lingua si sommano forti differenze culturali. Questa scarsa mobilità rende difficile assorbire gli shock locali. Lo scoppio della bolla Internet ha colpito la Germania molto più della Spagna, mentre l'espansione della Cina ha beneficiato l'export tedesco molto più di quello spagnolo. Difficile dunque disegnare una politica monetaria che funzioni per entrambi i paesi. La politica monetaria all'inizio del millennio andava bene per la Germania, ma era troppo inflazionistica per la Spagna. Oggi, viceversa, va bene per la Germania, ma è troppo restrittiva per la Spagna.
 Queste crisi locali sono peggiorate dalla mancanza di trasferimenti anticiclici tra stati europei. Quando il Texas ha difficoltà mentre la California va bene, le entrate fiscali dei residenti californiani aiutano a pagare i sussidi di disoccupazione dei texani. In Europa no. 
Non potendo svalutare il cambio e non ricevendo un sostegno dal resto dell'Unione un paese europeo colpito da uno shock (come l'esplosione della bolla immobiliare in Spagna) può aggiustarsi solo con due meccanismi: l'emigrazione di manodopera e la riduzione dei salari reali sotto la pressione della disoccupazione. Entrambi questi meccanismi alla lunga funzionano, ma sono estremamente lenti ed estremamente penosi. Anche perché la terza crisi, ovvero quella fiscale, rende difficile usare le politiche di welfare usate finora. 
Negli ultimi cinquant'anni il consenso sociale nelle democrazie occidentali è stato raggiunto facilmente con il sistema dello "spendi subito e paghi dopo." In un periodo di forte crescita economica e demografica, questo sistema ha funzionato a meraviglia. Il peso del debito scaricato sulle generazioni future si è rivelato minimo perché queste generazioni erano più ricche e numerose. Purtroppo questo trucco non funziona più: la riduzione dei tassi medi di crescita e il crollo demografico non solo rendono impossibile scaricare il conto sulle generazioni future (meno numerose e non necessariamente più ricche), ma forzano quelle attuali a cominciare a pagare il debito contratto da quelle passate. Questo rende difficile per i governi occidentali compensare gli effetti di uno shock negativo con politiche fiscali espansive. 
Gli Stati Uniti e l'Inghilterra, che partivano da una situazione debitoria migliore, hanno potuto farlo, ma ora anche loro devono cambiare rotta, come dimostrano i severi tagli di bilancio imposti dal premier inglese David Cameron e il braccio di ferro sul bilancio tra Congresso e Presidente in America. 
Fin dall'inizio della crisi l'Italia, gravata dal peso del suo debito, non si è potuta permettere questa risposta. Ciò spiega la severità della nostra situazione. In particolare l'Italia ha sofferto pesantemente l'interazione tra la crisi dell'euro e quella fiscale. La difficoltà di aggiustamento all'interno di una area di cambi fissi ha ridotto il nostro tasso di crescita. Questa riduzione ha messo in dubbio la solvibilità del nostro Paese, minacciando la stessa sopravvivenza dell'euro. A sua volta, i dubbi sulla sopravvivenza della moneta comune hanno aumentato il costo del nostro debito, riducendo la crescita ed incrementando 
il rischio di insolvenza del nostro Paese. 
In questo contesto lo scenario più positivo è un lento e penoso processo di recupero, dove i motori della crescita rimangono la Cina e gli Stati Uniti che sembrano aver lasciato la loro crisi alle spalle. In particolar modo negli Usa c'è molto entusiasmo per le opportunità offerte da una nuova tecnologia di estrazione del petrolio e gas in profondità (fracking), che promette all'America indipendenza energetica e gas a basso costo. 
Gli scenari negativi sono molti, ma tutti passano attraverso un problema politico. L'instabilità potrebbe minacciare il processo di crescita cinese e la ripresa americana. Ma i rischi principali vengono purtroppo dall'Europa e soprattutto dall'area euro. Gli elettori tedeschi potrebbero stufarsi di pagare per gli errori altrui e lasciare le nazioni del Sud Europa al loro destino. Ma il rischio maggiore è quello di una rivolta politica dei paesi più in difficoltà. A giugno 2012 i partiti estremisti e anti austerità hanno raccolto in Grecia il 46 per cento dei voti. Con il prolungarsi della recessione, la crisi politica può contagiare altri Paesi, con conseguenze imprevedibili sulla stabilità dell'Unione. 
Come uscirne? La prima soluzione passa per l'aumento dei meccanismi di solidarietà a livello europeo. Dopo l'unione bancaria, che prevede anche un sistema di salvataggio delle banche, sarebbe utile introdurre un sussidio di disoccupazione comune europeo pagato con fondi comuni. Questo aiuterebbe ad ammortizzare i costi della crisi nel Sud Europa senza creare meccanismi preversi che premiano i governi che spendono di più.
A livello italiano gli spazi di manovra sono fortemente limitati dal vincolo di bilancio. Una manovra possibile sarebbe una riduzione della spesa pubblica accompagnata da un taglio del carico fiscale sul lavoro. Questo riduzione del cuneo fiscale, ovvero della differenza tra quello che un'impresa paga e quello che un lavoratore percepisce, favorirebbe un aumento dell'occupazione e della crescita.
L'altra area di intervento è quella del credito. Oggi le banche italiane prestano poco o nulla perché non hanno i soldi per farlo. Dall'altro lato la Cassa Depositi e Prestiti (Cdp), controllata al 70 per cento dal ministero dell'Economia, ha soldi da buttare via in operazioni finanziarie di scarsa utilità sociale come l'acquisto del 4,5 per cento Generali da Bankitalia. Perché non usare i soldi per finanziare le imprese e i privati? La Cdp non ha la struttura per erogare credito in modo capillare, ma potrebbe farlo indirettamente, sfruttando la struttura della banche: quindi offrirsi di riscontare a tassi di favore i nuovi prestiti fatti dalle banche, lasciando in carico alle banche il primo 5 per cento di perdite. In questo modo gli istituti mantengono gli incentivi a prestare in modo oculato, ma non devono impegnare capitali che non hanno. E consumatori ed imprese riacquistano accesso al credito. 
"Coll'anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?" ? domanda il passeggere del Leopardi. A noi non resta che rispondere come il venditore di almanacchi: "Speriamo."

venerdì 28 dicembre 2012

La Giustizia nel dimenticatoio


Pubblicato: Ven, 28/12/2012 - 18:30  •  da: Alberto Saravalle

Da Formiche.net
Quanto più si avvicinano le elezioni, tanto meno si sente parlare di programmi, mentre il dibattito si sposta su alleanze elettorali e leadership. Tra i temi apparentemente dimenticati in queste settimane vi è, in particolare, la giustizia che in passato aveva infiammato il dibattito politico e riempito le pagine dei quotidiani. La stessa Agenda Monti dedica solo pochi cenni a questi temi, per lo più in materia penale, salvo un generico richiamo alla disciplina dei conflitti d’interesse.
Per anni un’ossessiva campagna mediatica aveva fatto credere che le riforme prioritarie per il paese fossero la separazione delle carriere dei giudici, la disciplina delle intercettazioni e l’immunità delle principali cariche dello Stato. Alla gran parte degli italiani, invece, quando si parla di giustizia, il pensiero va alla lentezza dei procedimenti, all’inefficienza dei tribunali, alla prescrizione che alla fine salva sempre i colpevoli, agli eccessi della carcerazione preventiva, alla giustizia tributaria che troppo spesso interviene dopo l’esecuzione forzata che ha messo in ginocchio il contribuente, e alla mancata specializzazione dei giudici. E’ a queste legittime preoccupazioni, che i cittadini confrontano tutti i giorni, che si rivolge il programma sulla giustizia di Fare per Fermare il Declino. Pur consapevoli che altre riforme di più ampio respiro saranno necessarie nel medio termine, abbiamo dato la priorità a proposte pragmatiche, realizzabili in tempi ragionevoli senza dover mettere mano alla Costituzione, che incidano sulla vita di tutti e favoriscano la crescita. Mi limiterò a richiamare quelle principali.
Il campo prioritario sul quale occorre urgentemente intervenire è quello della giustizia civile. I procedimenti in Italia hanno una durata doppia rispetto alla media europea secondo il Consiglio d'Europa. Occorre dunque, innanzitutto, disincentivare le cause pretestuose (si pensi, ad esempio, che il 52% delle cause per RC Auto nel 2010 era in Campania), prevedendo una piena condanna per le spese processuali sostenute dalla controparte e le spese effettive sostenute dallo Stato per celebrare il processo (nonostante i recenti aumenti del contributo unificato, in Italia il costo a carico delle parti è pari al 10,7% mentre la media europea è il 28,3%). E’ poi necessario introdurre criteri oggettivi, e non discrezionali, per la condanna di chi abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave e innalzare il tasso d’interesse legale al di sopra dei tassi di mercato. Potrebbe infine rivelarsi utile promuovere il ricorso a polizze assicurative di tutela legale (che coprano anche i costi del contenzioso). Non basta, tuttavia, intervenire con soluzioni sul solo piano processuale: occorre, anche agire tempestivamente sul piano del diritto sostanziale per prevenire le cause seriali, spesso per modici importi, in materia bancaria, assicurativa, previdenziale o per la responsabilità di enti pubblici che quotidianamente inondano i tribunali (si pensi alle migliaia di controversie promosse dai precari della scuola, a quelle sugli interessi bancari, a quelle sul risarcimento per trasfusione infetta del sangue, ecc.). Per esse potrebbero ben trovarsi delle soluzioni sul piano legislativo o prefigurarsi una corsia preferenziale alla Cassazione affinché stabilisca il principio di diritto applicabile a tutti i casi analoghi. Al tempo stesso occorre smaltire le cause in corso attraverso incentivi alle parti e ai consulenti al ricorso alla mediazione o transazione diretta. Per trasparenza, i dati sull’arretrato per ogni tribunale dovrebbero essere a disposizione di tutti.
Tali interventi, tuttavia, non serviranno se non saranno accompagnati da riforme strutturali che evitino il reiterarsi del fenomeno. Oggi i giudici italiani sono assai meno della media europea e operano per lo più senza assistenza e con poche risorse (anche se la spesa pubblica per la giustizia rimane elevata). A tal fine sarebbe importante promuovere una riorganizzazione della struttura degli uffici giudiziari, anche con l’inserimento di figure manageriali, valorizzando di più la performance dei giudici in termini di efficienza. Per migliorare l’offerta di giustizia nel paese si deve però agire non solo sul piano quantitativo (più sentenze), ma anche su quello qualitativo (sentenze migliori): data la sempre maggiore complessità dei diversi settori del diritto, proponiamo di accrescere la specializzazione dei giudici, generalizzando la prassi delle sezioni dedite al diritto commerciale, del lavoro, fallimentare, di famiglia, delle locazioni, e della proprietà industriale e intellettuale. Dopotutto, nessuno andrebbe a farsi difendere in un giudizio penale da un avvocato che fino all’altro giorno si occupava solo di diritto di famiglia; perché lo stesso non deve valere per i giudici?
Analoghi interventi sono necessari per la giustizia penale per accelerare i processi e limitare la carcerazione preventiva, attraverso sistemi di controllo (es. braccialetto elettronico) già in vigore in altri paesi. La priorità è però assicurare certezza ed effettività della pena riformando in profondità la disciplina della prescrizione e della concessione dei benefici ai carcerati. Sul piano del diritto sostanziale, sono poi condivisibili i richiami contenuti nell’Agenda Monti al ripristino della disciplina sul falso in bilancio, a una più incisiva disciplina della corruzione e alla regolamentazione delle intercettazioni.
In tema di giustizia tributaria, il problema principale è la preparazione dei giudici tributari che oggi sono chiamati a decidere questioni giuridiche sempre più complesse e vitali per i contribuenti. Com’è noto, essi non provengono dai ranghi della magistratura e ciò, tra l’altro, fa sì che i giudici della sezione tributaria della Cassazione, per definizione, abbiano percorso la propria carriera in settori del diritto affatto diversi. E’ tempo di rimettere mano alla composizione delle commissioni tributarie, per accrescerne la competenza.
Per sgravare la giustizia amministrativa, infine, occorre creare incentivi per le amministrazioni per una più rapida definizione non contenziosa delle questioni su cui sono chiamate a decidere. Troppo spesso gli amministratori pubblici  preferiscono finire in giudizio temendo di assumersi responsabilità.
La nostra sfida è di riformare la macchina dello Stato per fare dell’Italia un paese civile dove la giustizia sia rapida, efficiente, equa e al servizio della gente. Una classifica della Banca Mondiale colloca l’Italia al 160° posto, sui 185 paesi analizzati, per efficienza della giustizia civile tenendo in considerazione i tempi (1.210 giorni), i costi (29,9% del valore in lite) e il numero delle diverse procedure (41) di un processo per il recupero di un credito commerciale. Per non dire poi del tasso di corruzione che ci vede al 56° posto. Una giustizia inefficiente produce effetti devastanti per il paese: attira meno investimenti, soprattutto dall’estero; fa sì che il mercato del credito e della finanza siano poco sviluppati e vi siano asimmetrie nei tassi d’interesse tra diverse regioni (più durano i processi più sono elevati i tassi); causa rigidità nel mercato del lavoro; limita la concorrenza nei settori produttivi; provoca distorsioni nella struttura delle imprese; ingessa il mercato immobiliare. Forse oggi, la giustizia muove pochi voti, ma è una cosa troppo seria per essere relegata nel dimenticatoio della campagna elettorale
Alberto Saravalle è Professore di Diritto dell’Unione Europea nell’Università di Padova, Presidente di uno Studio Legale a Milano, Coordinatore del settore Giustizia di Fare per Fermare il Declino