lunedì 4 febbraio 2013

Ripensare il capitalismo comunale


Pubblicato: Dom, 03/02/2013 - 14:45  •  da:

Da L'Espresso
Subito dopo il Monte dei Paschi di Siena, nella prossima legislatura sarà bene ripensare tutto il capitalismo comunale, quello delle aziende che erogano energia, acqua, trasporto, o gestiscono aeroporti, sanità, o trattano i rifiuti. Qualunque sia il partito del sindaco. Negli ultimi anni, ricerche di Ceris-Cnr, Fondazione Mattei, Servizio Studi BdI hanno quantificato l’impatto negativo della politica locale sul funzionamento dei servizi pubblici. Questi sono gestiti da società di capitali, ma fino agli anni ’80 erano svolti direttamente dai Comuni o da aziende municipalizzate su standard da amministrazione comunale. Poi nel 1990 nacquero le aziende speciali, un po’ più autonome ma sempre controllate dai Comuni. Nel 1997 si passò a società a r.l. con l’ingresso di privati. Nel 2001 le srl dovettero trasformarsi in SpA (corporatization). Nel 2009 fu deciso che dal 2011 tutti i servizi locali sarebbero stati assegnati con asta. Ma la Corte Costituzionale (sentenza 199/2012) lo giudicò illegittimo perché in contrapposizione al referendum 2011.
     L’analisi di centinaia di società ha dimostrato cose interessanti. La corporatization e la presenza di azionisti privati introducono comportamenti virtuosi e portano un miglioramento di performance e redditività, sia pur con maggior leverage finanziario. La presenza di consiglieri di amministrazione designati dalla politica incide negativamente. Un CdA troppo numeroso è dannoso, anche perché capita che il numero reale di consiglieri politici superi il massimo di 5 fissato per legge. L’ingresso di amministratori indipendenti, sempreché lo siano davvero, riduce la forza delle pressioni politiche. Oltre a vantaggi strategici, le joint-venture tra più Comuni perdono efficienza per il maggior peso dei costi di coordinamento. Iren, nata da Iride piemontese ed Enia emiliana, ha un CdA di 13 membri. A2A, nata da AEM di Milano e ASM di Brescia, ha un consiglio di sorveglianza di 13 membri, un presidente, un vicepresidente e un comitato di gestione di 8 membri. E meno male che alcuni nomi sono di prim’ordine.
È stata rilevata un’enorme differenza di economicità tra le società energetiche (elettricità, gas), che presentano margini positivi, e quelle del trasporto locale, in perdita in tutto il mondo ma di più in Italia. Le ragioni sono tante. Innanzitutto, le energetiche beneficiano di una riscossione certa delle bollette, pena l’interruzione del servizio, mentre il trasporto locale non riesce a fare altrettanto. Poi, le energetiche derivano dalle partecipazioni statali, dove la pianificazione e controllo era moderna e il rifiuto di malintese finalità sociali in origine era netto. Tutto il contrario accade nelle società di trasporto, che derivano dalle gestioni dirette comunali inefficienti e socialmente lassiste. In terzo luogo, la partecipazione di investitori privati è talvolta anche significativa nelle prime, assente nelle seconde. Infine, le energetiche sono spesso quotate, soggette al rating delle emissioni obbligazionarie, hanno una conduzione manageriale, con dirigenti reperiti o validati da cacciatori di teste. Il contrario accade in quelle di trasporto. Due esempi. Un tentativo di managerializzazione dell’Atac di Roma abortì nel marzo 2011 quando l’assessore alla mobilità della giunta scavalcò l’azienda e siglò un accordo sindacale per l’affidamento in house dei servizi di trasporto. Pochi mesi fa, il Comune di Milano ha dimostrato scarsa conoscenza del mercato dei capitali in un tentativo non riuscito di quotare la società aeroportuale Sea contro le valutazioni del socio privato.
In crescendo, i rimedi sono: obbligare i Comuni a designare solo consiglieri di amministrazione indipendenti e a prendere dirigenti dal mercato; ripensare a fondo gli assetti di governance; arretrare il perimetro della presenza pubblica, liberalizzando tutti i servizi pubblici locali. La politica saprà autoriformarsi?

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